Il ricordo del grande giornalista sportivo, attento e curioso cronista anche di cibo e vino, nelle parole di Luciano Ferraro
Di Giulio Somma
Curioso, attento, appassionato, onesto e capace di una prosa efficace, pragmatica, che sfiorava l’epica: quando Gianni Mura (insieme alla cara moglie Paola) scriveva di vino e di cibo metteva in gioco tutti questi suoi lati che, uniti ad un carattere diretto, fino ad apparire a volte ruvido, gli restituivano una rara autorevolezza. Gianni, scomparso qualche giorno fa, più conosciuto per le memorabili cronache sportive, e indicato come erede di un altro grande Gianni, il Brera, era forse l’ultimo di quella “vecchia scuola” inaugurata dai padri nobili del giornalismo enologico italiano: Soldati, Monelli, Veronelli. Nelle sue scorribande eno-culinarie insieme alla inseparabile Paola, ha raccontato il mondo del vino e del cibo italiano “da dentro” con quella instancabile curiosità che, insieme alla passione e all’onestà intellettuale rimane la più bella lezione che ci ha lasciato in eredità. Io ho conosciuto Gianni e Paola molti anni fa, le rare occasioni di incontro le ricordo con simpatia mista al fascino dell’autorevolezza. Tra i diversi articoli pubblicati in questi giorni, quello di Luciano Ferraro pubblicato sul Corriere della Sera mi ha molto colpito perché va oltre la cronaca, diventando testimonianza. E lascio volentieri le parole del ricordo a lui che, meglio di me, lo ha potuto conoscere. Ringraziandolo.
L’uomo che raccontava campioni e gregari.
Addio a Mura, Milano lo omaggi
Da due mesi Gianni Mura si era rifugiato a Senigallia, dopo una polmonite. Era dimagrito 15 chili, risultato di una delle tante diete che sopportava. Quest’ultima così dura (e necessaria) da fargli pensare di abbandonare la sua storica rubrica di critica gastronomica sul “Venerdì di Repubblica”, una pagina settimanale alla ricerca dei locali della cucina autentica, tradizionale, onesta. Sapeva che i suoi lettori non gli avrebbero mai perdonato il ritiro, e ha continuato fino all’ultimo. “Che scrivo a fare se non mangio e non bevo più come prima? “, ripeteva nelle ultime settimane agli amici. Poi frugava nei taccuini e spuntava sempre un oste da raccontare, conosciuto nei decenni di viaggi inseguendo il calcio e il ciclismo, la sua passione, mezzo secolo di epici racconti di campioni e gregari. Si sentiva in forma, stava seguendo gli ordini dei medici. Un colpo al cuore l’ha portato via mentre respirava quell’aria buona che i dottori gli avevano consigliato, per superare i postumi della polmonite che ancora non si chiamava Covid-19.
Strana la vita, e anche come finisce. L’aveva scritto proprio Mura, nel decennale della scomparsa di Gianni Brera, morto in un incidente stradale tra Maleo e Casalpusterlengo, nella Lombardia allora nebbiosa. E ora lo si può scrivere di lui, che se ne è andato proprio quando pensava di aver fatto il suo dovere di ex paziente, guarito da tempo. Strana la vita, e anche come finisce.
Amava Milano, la sua casa vicino alla Stazione centrale in cui viveva con la moglie Paola, con la quale firmava la rubrica “Mangia&Bevi”. Amava alcuni storici locali, come l’Osteria del treno. Ed ora Milano dovrebbe ricambiarlo, ospitandolo al Monumentale.
Ho incontrato per la prima volta Mura 34 anni fa, nella vecchia sede di “Repubblica” in piazza Indipendenza a Roma. Ai miei occhi di giovane cronista, che quel giorno aveva appena consegnato la prova scritta per l’esame professionale, Mura era un dio del giornalismo. Rimasi sorpreso a vederlo impegnato in faccende terrene: stava sistemando sotto la scrivania una busta di plastica con la spesa. Il cibo e il vino sono stati una passione che ha segnato la sua vita. È stato amico di Luigi Veronelli e di Carlo Petrini, che ha firmato la prefazione del suo ultimo libro, “Non c’è gusto” (Minimum fax). In quel libro Mura racconta memorabili aneddoti. Quando dovette correre al bagno per il suo primo e ultimo plateau di ostriche non proprio freschissime, consigliate dai colleghi al seguito del Tour de France. O quando chiese consiglio a Nils Liedhom, “lo svedese che conoscevo meglio, gran maestro di calcio”, prima di volare in Svezia per una trasferta: narice d’alce bollita, fu il suggerimento, “lo ringraziai e mi tenni alla larga”. Nell’introduzione del libro Mura, l’allievo prediletto di Brera diventato una delle penne dello sport più note al mondo, ha scritto quello che oggi potrebbe essere il suo epitaffio, un auto-coccodrillo nel suo stile, arguto, ironico, diretto: “Confesso che ho vissuto, che ho mangiato, che ho bevuto, che ho sbagliato. La maggior parte degli errori, in gioventù”.