di Teresa E. Baccini
Parterre delle grandi occasioni per la quinta edizione del Boroli Wine Forum, organizzato come ogni anno dalla famiglia Boroli, produttrice di Barolo nelle Langhe: giornalisti, enologi, ma soprattutto molti operatori vitivinicoli si sono riuniti lo scorso 21 marzo per discutere di “Valore del Marchio, un asset per l’internazionalizzazione” nella splendida tenuta vitivinicola Bompé, sulle colline di Alba, che ospita anche la Locanda del Pilone, prestigioso ristorante stellato di famiglia. Moderati dal giornalista televisivo Bruno Vespa, grande appassionato di vino che da poco ha debuttato anche come produttore, sono intervenuti prestigiosi ospiti internazionali e barolisti locali per parlare di come si costruisce un marchio, ma anche come si difende, in particolare dalle contraffazioni che sembrano esser diventate sempre più sofisticate.
Il focus della maggior parte degli interventi si è fissato però sul rapporto tra brand e territorio non solo come leva di comunicazione nel narrare una storia produttiva esemplare, ma anche come elemento di costruzione d’identità, in un mercato vinicolo sempre più competitivo.
Pierre Godé, vice presidente della multinazionale del lusso LVMH International, nel ribadire il valore fondamentale del marchio e della capacità dell’impresa di creare prodotti di qualità, ha voluto sottolineare il rapporto sempre più stretto che si è creato con il consumatore attraverso internet, un mezzo che affascina i giovani, ma facilita la falsificazione. Senza rifiutare quella che definisce “un’esperienza meravigliosa” ha esortato a conciliare la ricerca dell’eccellenza con la diffusione su internet.
Proprio sull’incremento della vendita di vino in rete ha insistito Richard Nalley, giornalista di Forbes Magazine e autore della Guida Food & Wine Magazine 2015, che ha raccontato come sta cambiando il mercato statunitense, con il 55% dei potenziali acquirenti che non ha più di 30 anni, usa internet per individuare i negozi dove può rifornirsi al miglior prezzo dei marchi più famosi e naviga sui siti delle aziende per ricavare informazioni utili e precise, come sessioni di degustazione o eventi che incrementano la conoscenza di un determinato prodotto. Il mercato americano, secondo Nalley, sta cambiando velocemente e il valore di un marchio può essere sancito non solo da una recensione di Robert Parker, ma anche dall’etichetta di un importatore famoso sulla bottiglia.
Pierre Lurton, che rappresentava due grandi marchi come Château Cheval Blanc e Château d’Yquem, con grande eleganza e un pizzico di poesia, ha ricondotto invece il discorso del marchio al valore del vino, sublimazione della materia per chi sa mettersi in sinergia con la vite attraverso il savoir fair e l’eleganza del gesto. Ha ricordato come i grandi terroir siano mosaici di complessità e come solo quando l’assemblaggio della complessità crea una vera sinergia nasca il grande marchio, quello che fa la differenza. Un vino mai uguale a se stesso, ma che di anno in anno dimostra un’attitudine “a viaggiare attraverso il tempo”.
Significativamente sulla stessa lunghezza d’onda anche Manuel Louzada, direttore di Numanthia, azienda prestigiosa del nord ovest della Spagna che ha scelto di legare il proprio marchio alla storia del territorio, un luogo unico dove sopravvivono migliaio di ettari di vigne prefillosseriche. In questo caso la qualità e l’esclusività precedono il marchio, donando al vino una riconoscibilità immediata. Riuscire a comunicare in modo da condividere questa magnifica espressione della regione suscitando emozioni forti è, secondo Louzada, il segreto del marchio Numanthia.
Diversa invece la storia del Masseto, nato in una zona praticamente sconosciuta 30 anni fa e non particolarmente vocata alla viticoltura. Giovanni Geddes, Ceo di Masseto, ha ricordato la vicenda curiosa di un territorio argilloso dove si poteva coltivare solo Merlot che pure ha dato origine ad un piccolo vino diventato mitico. Come a dire che l’eccellenza assoluta si raggiunge solo dove c’è la determinazione degli uomini a raggiungere il massimo di quello che si coltiva e la singolarità può diventare il valore di un marchio.
Una storia che ricorda singolarmente quella di Tenuta San Guido, nella Toscana di Bolgheri, dove solo la determinazione del marchese Mario Incisa a voler produrre un vino “alla francese” ha creato un precedente che in Italia ha fatto storia. Carlo Paoli, direttore generale della tenuta, ha spiegato che senza entusiasmo non si produce niente e il segreto è proprio quello di fare entusiasmare anche gli altri. In sostanza il brand nasce quando si crede in quello che si fa e si ha la costanza di perseguire un progetto.
In queste storie di personaggi unici e geniali si è inserita la testimonianza di alcuni produttori di Barolo per affermare il valore di un marchio che appartiene a tutti. Come quella di Roberto Conterno, dell’azienda Giacomo Conterno di Monforte d’Alba, che ha ricordato come un marchio sia una garanzia di qualità nel tempo e che se qualcuno si mettesse a produrre Barolo oggi avrebbe comunque alle spalle un grande marchio, il Barolo. Un marchio che solo le persone che ci lavorano dentro rendono vivo continuamente.
Alle generazioni che l’hanno preceduto nel costruire il marchio Barolo ha dato merito anche Luca Currado, dell’azienda Vietti di Castiglione Falletto, sottolineando che il brand, in fondo, è la qualità che il territorio permette di fare e solo la ripetitività del risultato eccellente fa il marchio. A patto che si abbia la capacità di non volersi mettere davanti al terroir.
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