Nel mondo della produzione del vino il concetto di marchio è molto antico, basti pensare che già nell’antico Egitto i vini venivano distinti per area di produzione. In Grecia e a Roma il concetto di marchio del vino divenne poi più evoluto, facendo diventare il contenitore stesso (ossia l’anfora) un “segno” che faceva riferimento a una particolare zona di produzione. Anfore diverse dunque per vini di provenienza diversa. Ma a Roma si iniziò anche a indicare il nome del produttore sull’anfora. Sono infatti pervenute fino a noi anfore che portano il nome della gens Caedicia, produttori nell’Agro romano e proprietari anche di una officina ceramica. Si è dunque sempre cercato di distinguere il vino, per cercare di arginare il fenomeno delle contraffazioni, anch’esso assai antico.
Con questo excursus storico a cura di Giusi Mainardi, si è aperto – lo scorso 12 maggio all’Accademia dei Georgofili di Firenze – un incontro di approfondimento sul tema del valore dei marchi nel settore agroalimentare, e in modo particolare di quelli del vino. La giornata aveva lo scopo di introdurre le problematiche relative alle nuove discipline comunitarie che nel 2015 hanno introdotto il concetto di “marchio di certificazione” (o di garanzia), che in Italia entrerà in vigore a ottobre prossimo.
In un mercato così tanto globalizzato come quello del vino – basti pensare che una bottiglia su tre viene consumata su un mercato diverso da quello di produzione e che ormai siamo vicini a una bottiglia su due – il marchio resta l’unico elemento capace di parlare al consumatore e di generare in esso fiducia. Maria Cristina Baldini e Pierstefano Berta hanno da poco dedicato un volume proprio alla questione dei marchi e della loro difesa (“Il vino e i marchi”, Edizioni OICCE), un manuale che si rivolge alle cantine e che spiega anche passo per passo il processo che dovrebbe essere seguito ogni qual volta si immette un nuovo vino sul mercato, e ci sia quindi la necessità di far nascere un nuovo marchio. Nella loro relazione congiunta ai Georgofili, Baldini e Berta hanno parlato anche del nuovo marchio di certificazione UE, che è di stampo anglosassone e che va a garantire un procedimento, una particolare lavorazione o anche la materia prima utilizzata ma non fa riferimento all’origine del prodotto. In pratica, il marchio di certificazione introdotto dall’UE per l’Italia va a sovrapporsi a quello del marchio collettivo, con la differenza fondamentale che quest’ultimo fa riferimento anche all’origine del prodotto.
Secondo Ferdinando Albisinni, docente di Diritto Agrario, il marchio di certificazione dimostra chiaramente come l’Unione Europea si muova più su logiche di mercato che sulla tutela dei territori di origine di un prodotto. Allo stato attuale non si conoscono ancora le decisioni del nostro Ministero in materia, perché “gli Stati membri possono disporre che i segni o le indicazioni che, nel commercio, possono servire a designare la provenienza geografica dei prodotti o dei servizi costituiscano marchi di garanzia o certificazione” (articolo 28 della direttiva europea del 2015). In pratica, si apre in questo modo la possibilità che marchi di certificazione nazionali e comunitari seguano discipline diverse, soprattutto in merito alla indicazione di origine, con conseguenti confusioni e incertezze.
Lamberto Frescobaldi, che ha concluso i lavori del convegno, ha sottolineato come le denominazioni siano fondamentali nella tutela del consumatore, e come allo stesso modo siano un riconoscimento per il lavoro svolto dal produttore. Il binomio tra vino e territorio appare dunque indissolubile e imprescindibile, e in effetti visto che dura da oltre 3.000 anni, forse l’UE non aveva bisogno di intervenire anche su questo.
Patrizia Cantini
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