Egregio direttore,
Ho seguito sul Corriere Vinicolo il dibattito che si è aperto sul mercato impazzito, i prezzi del vino all’ingrosso in salita, coloro i quali sostengono che siamo in presenza di manovre speculative mentre in primavera il vino uscirà finalmente dalle cantine dove era stato imboscato, gli imbottigliatori che debbono fare i conti con la Gdo, i rapporti di forza che si ribaltano all’interno della filiera, il mercato sottosopra.
Dei numeri non abbiamo grande fiducia, ma parlano con chiarezza. L’export si consolida attorno ai 25 milioni di ettolitri ed il consumo di vino in Italia è di poco superiore a 20 milioni di ettolitri: assieme costituiscono un fabbisogno di 45 milioni di ettolitri ai quali va aggiunta la richiesta degli acetifici e degli utilizzatori di alcol. La produzione annuale dell’Italia rilevata dalla media degli ultimi cinque anni stenta a soddisfare il fabbisogno. Il vino ci verrà a mancare ?
La scarsità di vino, queste le cause
Hanno contribuito il riscaldamento climatico e lo stato di avanzata obsolescenza del 50% almeno dei vigneti italiani, ma ad accelerare il processo, in modo largamente inatteso, sono gli effetti prodotti dalla riforma Ocm.
L’Italia ebbe scarsa voce al tavolo delle trattative avviato negli anni precedenti a Bruxelles per essersi presentata senza un progetto unitario, senza altre proposte che non fossero quelle del mantenimento dello status quo. Corporazioni ed associazioni di casa nostra, tutte concordi nell’avversare la riforma, con una campagna abilmente orchestrata accusavano i funzionari della Commissione agricoltura europea di incompetenza e di velleitarismo e di voler introdurre misure dannose per il vino italiano; paventando rivolte dei viticoltori italiani a seguito della cancellazione dei contributi alla distillazione di crisi e sconvolgimenti al nostro paesaggio viticolo a causa dei premi all’estirpazione.
Si creò l’illusione che le misure che la riforma intendeva introdurre non sarebbero mai entrate in vigore o sarebbero state modificate, oppure ancora soggette a rinvio (un classico italiano) e quindi gli effetti, se ci fossero stati, sarebbero stati diluiti nel tempo. Invece non è stato così. La riforma voluta ed imposta da Bruxelles entrò puntualmente in vigore il 1° agosto 2009 e sono molti ad essere ora colti di sorpresa dagli effetti che sta producendo. Essa si era ispirata al comune buon senso, merce rara, mettendo la parola fine all’enorme spreco di denaro pubblico perpetuato per oltre trent’anni e destinato alla distruzione delle eccedenze e al mosto concentrato rettificato (che incentiva la sovrapproduzione), introducendo misure atte a riequilibrare il mercato del vino.
I contributi comunitari vengono ora destinati a co-finanziare l’azione di promozione dei produttori di vino sui mercati extracomunitari e fanno volare l’export nonostante i tempi di crisi. In breve tempo il numero delle cantine esportatrici è cresciuto di oltre il 30%, sdoganando anche un ampio numero di produttori artigiani, incoraggiandoli a fare rete, ad andare sui mercati esteri a narrare, a raccontare storie e passioni legate a tradizioni o innovazioni, rendendoli compartecipi della costruzione di una immagine più autorevole del vino italiano.
A causa di tutto ciò, sono in molti ormai a ritenere che il vino italiano stia vivendo un profondo cambiamento strutturale, mai vissuto prima, per affrontare il quale viene richiesto un approccio culturale diverso.
L’atteggiamento culturale
Va posto come primo obiettivo la prevenzione alla sofisticazione. La tentazione di produrre vino falso era forte già quando il vino ci usciva dalle orecchie, immaginarsi in futuro. Imparare a vendere meglio sui mercati esteri là dove già esiste una sostenuta domanda per vini italiani di fascia compresa tra i 3,5 e i 12 euro per bottiglia partenza cantina. Per intercettare la quale non basta semplicemente offrire prezzi inferiori, ma occorre invece migliorare qualità, professionalità e marketing. Smettere di pensare che la concorrenza ce la dobbiamo fare tra produttori italiani, che il nemico sia il collega concorrente vicino di casa, mentre invece essa va orientata nei confronti dei produttori del Nuovo mondo assai più che verso i produttori europei.
Mercato interno e mercato estero sono complementari. Il mercato interno resta quello più difficile, ma è prezioso perché forma e costruisce gli imprenditori. Screditare il mercato interno è da sciocchi. I produttori i cui vini godono di un adeguato posizionamento sul mercato italiano sono spesso gli stessi che raccolgono buoni risultasti sui mercati esteri.
L’equilibrio tra domanda e offerta porrà a tutti maggiori responsabilità, ma è di forte sprone per produttori ed operatori a crescere, a divenire imprenditori più capaci e preparati ad affrontare il mercato.
Angelo Gaja
Accogliamo volentieri il pensiero di Angelo Gaja, al quale ci preme sottolineare due cose. La prima a proposito della posizione delle associazioni di categoria sulla riforma Ocm: Unione Italiana Vini all’epoca del dibattito ebbe una posizione assolutamente favorevole alla filosofia riformatrice della Commissione, che era quella di far pulizia delle storture nella distribuzione dei fondi. L’unico scoglio su cui si premette a livello istituzionale fu quello dell’arricchimento: in assenza di interventi sul saccarosio, l’abolizione tout court dell’aiuto ai mosti parve squilibrata, e l’Associazione non mancò di sottolinearlo nelle sedi opportune.
La seconda, riguardante l’atteggiamento culturale: qui, concordiamo sul fatto che il mercato interno non possa essere abbandonato a se stesso, e lo abbiamo scritto più volte su questo giornale. Sull’estero, invece, se è vero che molti piccoli produttori si stanno organizzando per andare sui mercati, anche quelli più lontani, ci preme sottolineare che questa corsa oggi pare spesso all’arma bianca: i fondi a disposizione sono tanti, quello che manca è una sana disamina delle proprie capacità commerciali in relazione al mercato. Si finisce spesso per avere soldi e non sapere esattamente cosa farne, cadendo per inerzia in contesti “prefabbricati” privi di efficacia. Qui – e lo scrivemmo un anno fa proprio parlando di promozione – qualcuno a livello pubblico che valuti la bontà e la tempistica delle iniziative ci deve essere: l’esempio francese è quello più calzante, il fattore principale di valutazione è la sostenibilità e la coerenza in relazione al soggetto proponente.
A livello di consorzi (che con l’erga omnes si troveranno a gestire soldi a nome di tutti), sarebbe invece auspicabile che trovino il modo di discutere merito e metodo di ogni azione con tutte le aziende. Perché il rischio di spaccare il territorio e ripetere l’esperienza dura dei controlli è dietro l’angolo. Carlo Flamini
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