Per la prima volta da molti anni il sistema vino Italia si trova a fare i conti con una situazione completamente diversa, nuova per certi versi: abituati all’overproduzione, alle cantine piene di vino, ai prezzi al ribasso, quest’anno ci si trova con stock rientrati nella norma, una produzione a livelli minimi e listini che sono schizzati al rialzo. I rapporti di forza all’interno della filiera – senza troppi giri di parole – si sono completamente ribaltati: se prima a fare il prezzo e a dettare le dinamiche di acquisto e ritiro era l’acquirente, oggi è la produzione, cantine sociali in primis, che maneggiano oltre il 50% del prodotto in Italia, ad avere il pallino in mano: meno vino vuol dire possibilità di fissare il prezzo, di scegliere l’acquirente e di dettare le condizioni del contratto. Dall’altra parte, a valle, il segmento imbottigliatori deve fare i conti con la distribuzione, abituata in questi anni di abbondanza a operare con disinvoltura sui propri fornitori, imponendo i prezzi e riluttante a sentir parlare di aumenti. Se in un mercato in eccesso il gioco del ribasso a cascata poteva funzionare, oggi il meccanismo si inceppa, mettendo gli imbottigliatori tra due fuochi.
Il mondo insomma si è capovolto, e se questa situazione durerà a lungo, fino a divenire strutturale, è arrivato il momento di rivedere le logiche complessive di relazione tra gli attori della filiera per trovare un equilibrio che consenta a tutti di fare il proprio mestiere in maniera sostenibile e non più a discapito di qualcun altro.
Questa inchiesta a puntate, partita sul Corriere Vinicolo, coinvolgerà tutti gli anelli della filiera, a partire dalla cooperazione, di cui diamo un abstract in questa pagina, per arrivare agli imbottigliatori e agli industriali e chiudere il cerchio con la grande distribuzione. Siamo partiti dalla cooperazione non solo perché è il segmento che oggi maneggia la gran parte del vino in Italia, oltre la metà, ma soprattutto perché in questi ultimi anni è stata quella più vitale dal punto di vista dell’adeguamento a un mercato che stava cambiando: già prima che si intuisse dove la riforma Ocm avrebbe colpito, le cooperative hanno dato luogo a numerosi processi di aggregazione, fusione, accordi distributivi o riassetti societari, se ne contano un’ottantina solo in Confcooperative. Non tutti questi progetti avevano alle spalle chiare strategie, ma comunque denotano la consapevolezza che a star fermi si sarebbe rischiato grosso. La stessa sensibilità non la si ritrova in altre parti della filiera, che evidentemente ha sottovalutato l’impatto che misure come le estirpazioni, le vendemmie verdi o semplicemente gli abbandoni volontari avrebbero determinato sul volume di prodotto disponibile, rimanendo sostanzialmente immobile. E’ venuto insomma il tempo anche per la parte privata di cambiare logiche nei confronti di una base che non solo è più organizzata rispetto al passato, ma avendo in mano il gioco può aspirare legittimamente ad ampliare il suo raggio d’azione. Il tempo del mordi e fuggi pare essere finito, si deve inaugurare quello della collaborazione e della pianificazione. Su questo la cooperazione, come si vedrà all’interno del servizio, apre più di una porta.
Come dovrà stare sul mercato la cooperazione?
Ammesso che la cooperazione trovi nuovi spazi di manovra in un mercato in via di razionalizzazione, il quesito è come dovrà andare a occuparli: a scapito di chi? In quale segmento di prezzo? “Se si comporta stupidamente, andrà al ribasso, facendo soffrire i soci e lavorando male – dice sicuro Rolando Chiossi, vicepresidente Runite-GIV -. Invece un comportamento saggio, dettato dalla difficoltà degli imbottigliatori, potrebbe essere quello di aumentare sensibilmente i prezzi. Con 4/5 di Italia che non coprono i costi di produzione e con meno prodotto in prospettiva, le cooperative devono andare per forza in fascia più alta. Sarebbe uno sbaglio fare la guerra verso il basso. Io mi auguro che non si trovi qualcuno in cooperazione che si metta a far la guerra al centesimo sui primi prezzi”.
Assolutamente d’accordo con questa visione Ruenza Santandrea, Cevico e presidente comitato vino Legacoop: “La cooperazione non può fare ragionamenti del genere e sono convinta che non li farà, come non li ha fatti negli anni scorsi: i vini a prezzi stracciati non erano certo di cooperative. Noi come Cevico siamo stati i primi ad alzare i listini sin da novembre, anche all’estero, dove tra l’altro è stato più facile che qui. Abbiamo maturato questa forte convinzione: finalmente il mercato permette ai viticoltori di avere una giusta remunerazione, dobbiamo portare a casa gli aumenti, pur correndo il rischio di essere penalizzati in termini di vendite”.
Il problema di “chi mangia chi” non è invece avvertito da Franco Passador, direttore generale di Cantine Vi.V.O.: “Credo che in futuro ci sarà una divaricazione del mercato e dell’offerta, i vini con grande legame con il territorio di produzione e grossi volumi rimarranno in mano alle sociali, mentre gli altri vini saranno gestiti più facilmente dagli imbottigliatori, perché hanno dalla loro una storica capacità di servire i clienti e un portafoglio prodotti molto ampio, che oggi può soddisfare le esigenze del buyer in maniera più completa della cooperazione”.
Lo sottolinea anche la Santandrea: “La cooperazione ha un radicamento territoriale forte che è il suo pregio, in termini di rapporto con la base, e al contempo un suo limite, in termini di portafoglio prodotti. Limite che ha imposto in questi anni i tanti progetti di aggregazione e fusione, necessari per comprimere i costi industriali”.
Tuttavia, neanche questo potrebbe bastare a far dormire sonni tranquilli agli imbottigliatori, nel momento in cui prendono forma esempi di multiportafoglio come la linea “Assieme” delle cantine di LegaCoop, proposta presso gli scaffali di Coop Italia. “Un progetto – spiega la Santandrea – partito con un milione di bottiglie e che francamente ha stupito per primi noi: ci ha permesso di creare una linea multiregionale, con un messaggio comune in fatto di riduzione dei costi del packaging, territorio, incentrato sui valori di filiera, e che ha trovato sensibilità presso la Coop, la quale ha deciso di ridurre sensibilmente i propri margini. Credo che altre catene potrebbero essere interessate a progetti di questa natura, in quanto il ruolo della Gdo, come dice il ministro Catania, deve essere di supporto all’agricoltura”.
E poi c’è sempre l’incognita delle mosse della Gdo, tra progetti di private label da una parte – sempre più diversificati tra l’altro anche per posizionamento di prezzo – e tentazioni di “aggiramento”, come conferma Stefano Graziani, presidente di Med&A. “La Gdo sta iniziando ad acquistare vino andando a bussare direttamente dal produttore ed escludendo gli industriali. Io vedo questo come un fattore di rischio, perché gli imbottigliatori hanno una lunga tradizione e hanno riempito la bottiglia non solo con il vino, ma con i valori e le tradizioni dei territori. Alle spalle hanno una grande esperienza affinata nel tempo, da decine di anni di lavoro diversificano e migliorano il vino: si tratta di un binomio tra economicità e amore per il territorio, senza questi due fattori non so come si possa fare il vino. La grande distribuzione cerca di livellare tutto, mentre in Italia abbiamo una moltitudine straordinaria di prodotti, che gli imbottigliatori hanno comunque contribuito a promuovere”.
Concorde sul depauperamento potenziale dell’offerta è anche il presidente di Fedagri Vino, Adriano Orsi. “La cooperazione non può essere esaustiva del panorama nazionale – dice Orsi – la presenza dei privati è necessaria perché di stimolo. A regime, e ragionando in ottica globale, dovremmo come Paese aspirare ad arrivare a un sistema in equilibrio, per cui non vi sia mai carenza di prodotto: meglio averne un po’ di più e smaltirlo se del caso in modo diverso dalla vendita, che avere meno vino e mettere in crisi la cooperazione”.
Nella prossima puntata, in uscita sul Corriere Vinicolo n. 8, le strategie di adeguamento adottate dalla Gdo
Devi essere connesso per inviare un commento.