Ovviamente leggere delle statistiche esportative italiane relative al 2011 non può che far piacere per la nostra imprenditoria, chiamata a reggere l’urto di una crisi economica internazionale che non fa intravedere segnali di alleggerimento, in special modo nel nostro Paese. Quindi, quei 24 milioni di ettolitri per un fatturato record di 4,4 miliardi di euro sicuramente sortiranno quell’effetto psicologico balsamico in grado di dare la spinta alle nostre imprese per restare sui mercati consci del fatto che il vino italiano se la sta giocando alla grande con quelli che fino a pochi anni fa venivano considerati spauracchi: gli australiani, i cileni, gli argentini, i sudafricani.
Questo conforta, e lo si legge dai dati export italiani: recuperiamo terreno sui mercati tradizionali, America, Inghilterra, Paesi scandinavi, così come in Germania e nel cuore dell’Europa, approfittando del voltafaccia di questi Paesi a un esotico che esotico non è più e che alla fin dei conti dimostra una superficialità imbarazzante. Lo stesso fenomeno di recupero lo avvertono i francesi e – in misura minore – gli spagnoli, anche se questi ultimi sono ancora lontani dall’essersi dati un minimo di idea di cosa fare del 55% di sfuso da battaglia che scorrazza a prezzi da saldi in mezza Europa.
Ma questa è solo una faccia della medaglia. A noi stampa di settore il compito invece di guardare un po’ più a fondo nei numeri, di leggerli in controluce e soprattutto di incastrare la performance italiana in un contesto più ampio, che non si fermi a guardare solo verso Occidente. E’ per questo che abbiano dedicato l’edizione del Corriere Vinicolo n. 12 all’export dei maggiori competitor del nostro Paese, dai sudamericani agli americani, dal Sudafrica all’Australia, passando per Parigi e Madrid. Solo così possiamo renderci conto che qualcosa di grosso si sta muovendo nel mondo, uno spostamento che potremmo definire epocale verso Oriente e che – se non succederanno cataclismi economici – andrà a costruire il palcoscenico dove andrà in onda lo show-biz più grande.
Che cosa dicono i numeri, allora? Dicono che per rispondere alla stanchezza dei mercati tradizionali, australiani, neozelandesi, americani, cileni e in parte anche i sudafricani stanno dirottando una parte sempre più ampia delle proprie esportazioni verso l’Asia, e segnatamente Cina, Hong Kong, Singapore, Taiwan. Limitando il dato a Cina e Hong Kong, oggi il 14% del profitto dell’export gli americani lo fanno qui, quota che sale al 16% per gli australiani, addirittura al 20% per la Francia, mentre Nuova Zelanda e Cile sono attorno al 4-5%. Notare che si parla di export in bottiglia, pagato anche relativamente caro rispetto a quanto gli stessi produttori spuntino a Ovest.
La fatica che facciamo a portare il nostro vino fino a Shanghai o Macao è rispecchiata invece nei nostri, di numeri: in dieci anni il peso dell’Oriente sulle nostre esportazioni, pur cresciuto, rimane ancora ininfluente rispetto a quanto rappresentano Germania, Nordamerica e Regno Unito: Cina e Hong Kong rappresentano per noi appena il 2% del valore export, si sale al 5% inglobando anche Giappone, Corea del Sud, Singapore e Taiwan. Qui sta il nodo: se ci crediamo davvero, nell’Oriente, dobbiamo crescere più velocemente e in maniera più compatta oggi, perchè lasciare troppi margini di manovra agli altri rischia di creare una voragine che non riusciremo mai a colmare. Nemmeno quando questi mercati evolveranno verso una modalità di consumo in stile occidentale.
Estremo oriente: Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan
Fonte: elaborazioni Corriere Vinicolo su dati Istat e associazioni nazionali di categoria-istituti di statistica
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