83 a 17. Si riassume così, in questa formuletta che inquadra la proporzione sfuso/bottiglia sul mercato inglese, la parabola dell’export australiano degli ultimi anni. Una parabola che ha visto precipitare le spedizioni dirette, per affidarsi a una delocalizzazione produttiva che – alla fine dei conti – ha mantenuto i volumi, sacrificando però valore all’origine: dal picco di 1 miliardo di dollari australiani (stiamo sempre parlando di Londra), si è arrivati l’anno scorso sotto quota 400. Il che ha evidentemente avuto un effetto anche sul totale export, e sui prezzi medi di vendita: nel 2000 si era attorno a 5 AUD, oggi siamo a poco più della metà.
Quanto questo stia impattando sulla vitivinicoltura australiana lo dicono i numeri del vigneto, in graduale contrazione, e lo dicono le performance altalenanti dei grandi colossi, come la Treasury Wine Estates, figlia dello spin-off della Foster’s, a sua volta scottata dall’esperienza del ramo vitivinicolo.
Oltre alla delocalizzazione, negli ultimi anni la strategia dei grandi gruppi è stata quella di riposizionarsi su mercati che potessero garantire più margine: da una parte il Nordamerica e dall’altra il vicino (per loro) Oriente. Sul primo mercato, il sentiment – dopo essersi in parte raddrizzato nel 2013 – è tornato negativo, con una perdita a valore del 10%, a cui non ha dato fiato l’alleggerimento della valuta locale sul dollaro dell’ultimo scorcio dell’anno. Tuttavia, le cose sul mercato della distribuzione continuano a non andare per il verso giusto, con la progressiva disaffezione dei consumatori americani verso Merlot e Shiraz, quest’ultimo addirittura sotto del 15% nel consuntivo vendite 2014 del settore off-premise. In Canada invece si è in china discendente sulla bottiglia, ma si sta ampliando lo schema dello sfuso visto in UK (+45% nel 2014).
Devi essere connesso per inviare un commento.