di Matteo Marenghi
Protezione microbiologica, proprietà antiossidanti (a difesa di colore e aromi) e costo contenuto sono le qualità che fanno della anidride solforosa un additivo enologico di rilevantissimo interesse oramai da decenni. Tuttavia ci sono limiti che ne restringono il campo d’azione, fra cui i disciplinari dei vini bio e “naturali”, la sensibilità individuale che obbliga a riportarne la presenza in etichetta, l’effetto su certi caratteri organolettici. A tutto questo bisogna aggiungere una sempre maggiore attenzione da parte dei consumatori e le dosi di assunzione massima giornaliere suggerite dall’Organizzazione mondiale della sanità (0,7mg per kg di peso corporeo al giorno).
Si è parlato di questo e dei metodi che possono essere impiegati per ridurre l’utilizzo di SO2 nei vini durante il seminario organizzato da Vinidea presso la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige. Il primo passaggio sarebbe intervenire sul mosto: per evitarne l’ossidazione esistono alternative all’anidride solforosa, come il riscaldamento termico, la protezione con gas inerti, l’uso di acido ascorbico e l’impiego di glutatione. Ognuna di queste soluzioni presenta però dei limiti, dai costi alle normative al rischio di intervenire sul gusto.
Altro intervento di riduzione può essere effettuato direttamente sul vino, impiegando alternative alla solforosa come l’acetaldeide, che a sua volta però presenta dei problemi di tipo organolettico. Si sta diffondendo sempre più il coinoculo di lieviti più batteri malolattici al momento di avvio della vinificazione. Ultimo problema sono i lieviti, alcuni dei quali possono arrivare a produrre importanti quantità di anidride solforosa. Ecco perché la genetica si sta applicando per creare nuovi lieviti a bassa produzione di SO2.
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